Maggio 31 2021 0Comment

Silvia Superbi intervista Massimo Coen Cagli: le potenzialità del fundraising

 

Silvia Superbi intervista Massimo Coen Cagli, Co-Fondatore e Direttore Scientifico della Scuola di Fundraising di Roma, consulente e formatore, esperto di processi partecipativi e sostenibilità di progetti sociali e culturali.

 

Caro Massimo, vorrei porti tante domande considerata la tua pluriennale esperienza nel fundraising, in questo momento storico possiamo concentrarci su un aspetto specifico della tua attività e cioè quello che tu definisci un tuo obiettivo se non sbaglio potremo dire la tua mission: far crescere le potenzialità di fundraising delle organizzazioni per rinforzare i sistemi di welfare sociale. Ci vuoi raccontare meglio?

Quando abbiamo dato vita alla Scuola di Fundraising, insieme ai miei colleghi, abbiamo cercato di spiegare innanzitutto a noi stessi perché fosse così importante quello che facciamo, ossia il fundraising. Ma non importante per noi o per i clienti delle nostre attività di formazione e di consulenza, ma per il paese e per la società. Era per noi importante riscoprire il valore e il senso sociale e direi anche politico del fundraising. Un ruolo che anche nel nostro paese ha sempre avuto anche quando, secoli fa non si chiamava ancora così.

E allora è apparso chiaro che il vero scopo del fundraising non è quello di rendere sostenibili le organizzazioni non profit. Questo di per sé non produce automaticamente un valore aggiunto per la società. Il vero scopo del fundraising è quello di rendere possibile lo sviluppo del benessere delle comunità, della società rendendola protagonista di questo processo, rendendola “investitore” del proprio progresso e sviluppo. E farlo in modo indipendente (non in opposizione!) dalla finanza pubblica (basata sul prelievo delle tasse) e dall’economia di mercato (che è necessariamente praticabile solo se produce profitto).Ecco perché il fundraising non è il modo professionale per raccogliere fondi ma è – soprattutto nei tempi moderni – lo strumento principale dell’economia sociale o di comunità, economia senza la quale un paese, una comunità, la società nel complesso non è socialmente, culturalmente, ecologicamente ed economicamente sostenibile. In pratica noi lavoriamo – accanto alle organizzazioni sociali –per rendere sostenibile il welfare che la società desidera assicurarsi. E questo, a ben vedere, rende il fundraising essenziale a che il principio di sussidiarietà della nostra Costituzione, possa avere concretezza. Se Sussidiarietà vuol dire che lo Stato riconosce e valorizza la capacità autonoma della società civile di organizzarsi per rispondere alle esigenze della comunità e produrre benessere, allora vuol dire che questa capacità della società civile (non dello stato) deve avere una sua economia, altrimenti stiamo parlando di aria fritta. Questa economia si crea con il fundraising, non con le vendite e neanche con le tasse. Per cui il fundraising è essenziale per rendere vero il principio di sussidiarietà.

 

 

È un tema che apre a tante considerazioni, come quello della valorizzazione e della crescita di competenze nel Terzo Settore con tutte le sue potenzialità, come quello di motore di rinascita per la comunità e il welfare nazionale. Un modello virtuoso dove rinforzare e sostenere il terzo settore può essere una delle leve di rinascita per l’intero paese?

Io penso che vada preso atto che il fundraising non riguarda solo il terzo settore. Non c’è un “monopolio del fundraising da parte delle organizzazioni non profit”. La Pubblica amministrazione e sui suoi servizi lo fanno (come abbiamo potuto vedere durante la pandemia a favore di ospedali e protezione civile; così come lo fa per la cultura con lo strumento dell’Art Bonus). Altrettanto possiamo dire per altre formazioni sociali che non sono associazioni o cooperative ma sono aggregazioni più “leggere” come comitati o intere comunità territoriali. Ecco perché il fundraising deve essere anche l’oggetto di politiche pubbliche di incentivazione, controllo di qualità, agevolazione, sviluppo di tecnologie, ecc.. perché la sua crescita è indispensabile per la crescita e il benessere di un paese e non tanto o non solo per il non profit. E in Italia, quello che manca è proprio una politica sul fundraising. Il fundraising non è nella agenda di nessuna istituzione se non come aspetto marginale: è per lo più oggetto di regolamenti e norme non guidate da una strategia chiara e che quindi paradossalmente invece di favorirlo possono ostacolarlo.

Queste politiche dovrebbero avere al loro centro soprattutto il rafforzamento delle competenze, sia del personale che è già impegnato in queste organizzazioni sia di professionisti che possano rispondere alle esigenze di queste organizzazioni. In questi tempi, nell’ambito del recovery fund, si parla di nuove assunzioni in settori strategici del paese come le istituzioni culturali e altri servizi comuni: ma in nessuno di questi processi si punta a formare e assumere personale che si occupa di fundraising. Faccio un esempio. Il MANN- Museo archeologico di Napoli (il più importante museo archeologico al mondo), ha una marea di archeologi e custodi ma neanche un fundraiser professionista. Quando invece meriterebbe di avere un ufficio di almeno 20 persone che si occupino di fundraising e comunicazione anche e soprattutto acquisendo personale nuovo, competente e adeguatamente formato e non certo utilizzando personale interno in prepensionamento.  Questa oggi sembra una cosa assurda ma si continuano ad assumere amministrativi, usceri, ecc… Lo stesso vale per il non profit nel complesso: si investe ancora poco e male nel rafforzamento delle competenze del personale interno e si sostiene ancora poco il ricorso a professionalità esterne da integrare nella organizzazione. Quindi, un modello virtuoso (che manca ancora del tutto) dovrebbe puntare soprattutto sul rafforzamento delle competenze (da un lato) e sulla semplificazione e facilitazione del fundraising (liberandolo da regole e meccanismi burocratici e fiscali ancora troppo complessi). Ma deve riguardare non solo il terzo settore, ma l’intero paese e i soggetti che vi operano per aumentare il grado di welfare della comunità. Solo così può essere una delle leve di rinascita per l’intero paese.

 

 

Tu sei un esperto di una specifica applicazione del fundraising, in particolare quella per chi vuole occuparsi dei beni comuni, ossia quei beni materiali e immateriali di proprietà pubblica, spesso abbandonati a se stessi, che gruppi di cittadini e organizzazioni sociali hanno preso in carico per restituirli alla fruizione pubblica. Sono ormai molti i casi di questo genere in Italia e in Europa? E se ci sono, funzionano? Come il fundraising può supportare questo ambito?

Quello che sta accadendo nel settore dei beni comuni, materiali e immateriali, è proprio la riprova di quello che ho detto prima: il fundraising è uno strumento di sostenibilità del welfare e non del terzo settore, che comunque è un soggetto trainante in questi processi.

Innanzitutto diciamo che quello della cura, della gestione e della restituzione alla fruizione pubblica dei beni comuni è una vera e propria emergenza. In Italia il 70% del patrimonio di valore artistico, culturale, storico o comunque di proprietà pubblica è non utilizzato e spesso abbandonato a sé stesso. Spesso è oggetto di vandalismo e luogo di attività illegali e pericolose. Gran parte delle esperienze di concessione e affidamento a privati affinché li utilizzassero mettendoli a mercato (alberghi, ecc..) sono miseramente fallite. Dall’altro lato abbiamo un gran bisogno di spazi per realizzare attività culturali e sociali che rispondano ad esigenze della comunità che potrebbero trovare ospitalità proprio nei beni comuni. Infine vi è una crescente mobilitazione da parte delle comunità di tutta Italia (ma anche nel mondo) per riappropriarsi di tali beni in una logica di bene comune (non stiamo parlando delle occupazioni di tipo politico, ma di un fenomeno completamente diverso). Molte amministrazioni, infine, stanno dando vita a regolamenti che rendono più efficace e concreto il principio (di diritto) dell’uso civico dei beni della collettività facendosi anche parte in causa nel favorire la nascita di processi partecipativi volti a gestire, per il bene della collettività, i beni comuni.

L’insieme di questi aspetti mi fa ritenere l’ambito dei beni comuni un obiettivo strategico di sviluppo del fundraising, nel senso che è impossibile pensare che i beni comuni si sostengano solo con la finanza pubblica e men che meno che possano largamente essere sostenuti dall’economia di mercato. Per cui questa sfida del paese nel restituire alla fruizione collettiva i beni comuni passa necessariamente dal fundraising. Vi sono peraltro strumenti pensati ad hoc per questo, come i partenariati speciali pubblico privato per la cultura (previsti dal codice degli appalti), strumenti per valorizzare gli immobili di cui si promuove l’utilizzo a finalità sociale da parte delle organizzazioni di Terzo settore (Previsti dal nuovo codice) e lo stesso art bonus (nel caso si parli di beni di valore artistico e culturale). Tuttavia queste opportunità per essere esperite pienamente necessitano di essere affiancate dal fundraising altrimenti questi “rinnovati beni comuni” saranno ben presto non sostenibili.

Chi lo sta facendo ne vede i frutti. Il Teatro Tascabile di Bergamo ha dato vita ad un partenariato speciale con il Comune che ha già restituito – grazie al fundraising – alla fruizione pubblica, il Monastero dell’Ex Carmine di Bergamo e sta procedendo ad un secondo lotto che creerà una nuova struttura polifunzionale per la cultura nella città. Nella Val Cannobina da anni ormai esiste una fondazione che si chiama Comunità Attiva che garantisce servizi sociosanitari di alta qualità (integrati nel servizio sanitario nazionale) quali ad esempio un centro di Salute, basandosi esclusivamente sul fundraising da parte della comunità. A Napoli vi è una rete di circa 10 beni comuni, riconosciuta dal Comune, che grazie a risorse economiche e non economiche della comunità ha ridato vita a importanti patrimoni anche di valore artistico e culturale restituendoli alla funzione pubblica. Ma si potrebbero citare ormai centinaia di casi di fundraising per i beni comuni.  È insomma una grande opportunità anche di creazione di nuovo lavoro ad alta utilità sociale e che produce un risparmio economico e non economico enorme per la pubblica amministrazione e che quindi meriterebbe un grande investimento sulle competenze di fundraising degli attori protagonisti della gestione dei beni comuni.

 

Infine una domanda sul post-crisi che stiamo vivendo e che vivremo in questo primo futuro: l’emergenza lascia dietro di sé delle conseguenze pesanti sia nel settore sociale che culturale, che ben conosci, la capacità di resilienza e di reinventarsi sta aiutando tante organizzazioni, ma servirebbe un cambio di passo politico, istituzionale e di mindset: quali riforme o cambiamenti sarebbero necessari oggi per il Terzo Settore?

Direi che di riforme ne abbiamo abbastanza….Anche perché ogni riforma porta con sé iter burocratici e amministrativi che non siamo in grado di gestire al meglio, come dimostra l’interminabile strascico dell’attuazione della riforma del terzo settore. Io credo di più nel cambiamento di una cultura del fundraising negli attori chiave dei processi di riforma: lo stato, gli enti locali, lo stesso non profit, le fondazioni, le aziende. Io sento il bisogno urgente che tali soggetti si mettano attorno ad un tavolo e si accordino per una politica di investimento strategico nello sviluppo del fundraising in quanto strumento di una economia sociale indispensabile a garantire benessere e sviluppo, che produca valore aggiunto per la comunità, per gli attori sociali e per gli stessi “finanziatori”.  Altrimenti avremo solo una pletora di strumenti potenzialmente validi (come l’art bonus o lo stesso partenariato speciale pubblico privato, o il social bonus, ecc..) ma che non saranno pienamente efficaci perché i soggetti che li possono utilizzare non sono guidati da una visione strategica e da una “policy” condivisa. Continueremo ad andare in ordine sparso, ognuno teso a coltivare il proprio orticello (o a non fare nulla) senza reale crescita e senza valore aggiunto per il paese.  Accanto a questo serve liberare il fundraising da una serie di lacci e lacciuoli burocratici e amministrativi che lo ostacolano, lo rendono difficile per chi chiede soldi ma anche per chi li vuole donare.

Da un lato il nostro paese si profonde in dichiarazioni retoriche e anche un po’stucchevoli sull’importanza della “solidarietà”, della “beneficienza” del “mecenatismo”, del “terzo settore” (che doveva essere addirittura il primo!), dall’altro non fa nulla per incentivare i comportamenti donativi, il fundraising professionale e facilitarne la realizzazione. Da questo punto di vista siamo un paese schizofrenico che ha bisogno di rivedere la cultura della donazione: da fattore economico suppletivo rispetto alla finanza pubblica a fattore trainate dell’economia sociale. E questa rivoluzione cultura e riguarda tutti: non solo la pubblica amministrazione e i finanziatori, ma anche e soprattutto lo stesso non profit e i professionisti che vi operano.

 

 

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